Un film che attraversa i generi: da fiaba nera a mistero da provincia, con una narrazione spezzata e inquietante
Nel panorama delle nuove uscite cinematografiche di settembre 2025, Weapons di Zach Cregger si impone con forza, ma senza urlare. È un film che lavora a sottrazione, come certe paure che strisciano sotto la pelle e non ti abbandonano più. Distribuito in Italia con lo stesso titolo, l’opera seconda del regista di Barbarian si muove su territori già battuti dall’immaginario di Stephen King, mescolando elementi da small town mystery, horror psicologico e fiaba oscura. Ma ciò che rende Weapons qualcosa di diverso è il modo in cui Cregger frammenta la narrazione, spostando il punto di vista tra più personaggi, capitolo dopo capitolo, fino a costruire un puzzle che volutamente non vuole essere ricomposto fino in fondo.
Il mistero dei bambini scomparsi e una comunità in crisi
Tutto comincia a Maybrook, una tranquilla cittadina americana qualsiasi. In una notte che pare come tante, tutti i bambini di una classe delle elementari escono di casa, uno dopo l’altro, in silenzio. Camminano con le braccia tese, come aeroplani, attratti da una forza invisibile. Solo uno resta. Non si capisce da subito se si tratti di un incubo o di una possessione collettiva. E Maybrook, nel suo torpore suburbano, non cerca risposte: reagisce chiudendosi, come se ogni verità potesse solo peggiorare la ferita. La maestra dei bambini, Justine, diventa il bersaglio. È nuova in città, ha un passato problematico. Basta questo per farne la colpevole.
Nel frattempo Archer, uno dei padri dei ragazzi scomparsi (interpretato da Josh Brolin, anche produttore del film), si mette in moto. Si affianca a Justine per cercare indizi, incrocia testimonianze, tenta di collegare i frammenti. Ma non tutto torna. E il bambino superstite, Alex, non riesce o non vuole parlare. Ogni sezione del film racconta la stessa vicenda da un altro punto di vista: la maestra, il preside, un poliziotto, persino un tossicodipendente del quartiere. Nessuno ha un quadro completo, ma ognuno contribuisce a rendere più inquietante la cornice.

Cregger costruisce così un’opera dove il soprannaturale convive con l’assurdo quotidiano, dove ogni personaggio è testimone di un solo lato della verità. La tensione cresce proprio perché lo spettatore viene privato di una linea narrativa lineare. Ogni tassello è autonomo, ma quando lo si unisce agli altri, non forma mai un disegno definito.
Una fiaba nera mascherata da horror: il cinema postmoderno di Cregger
Chi si aspetta un horror tradizionale, fatto di mostri e urla, resterà spiazzato. Weapons non è quel tipo di film. Anche se ci sono jumpscare e scene splatter, il cuore dell’opera è altrove: nella paura sociale, nella disfunzione collettiva, nella solitudine urbana. Alcune figure sembrano uscite da un sogno distorto, come Gladys, la zia di Alex. È truccata in modo esagerato, si muove tra le strade con un’aria stregonesca, ma nessuno la prende sul serio. Ed è proprio questa rimozione, questo ignorare ciò che è strano, a suggerire dove nasca il vero orrore.
La narrazione è frammentata, salta da un personaggio all’altro senza avvisare. Non segue il tempo, ma le emozioni. Non porta a una spiegazione, ma a una serie di intuizioni. La casa infestata arriva solo alla fine, e funziona più come simbolo che come scenario da brividi. È un luogo senza tempo, un buco nero di colpe e verità mai dette. Il finale, surreale e grottesco, lascia un sapore amarissimo in bocca. Non perché non dia risposte, ma perché quelle risposte parlano più di noi che del mistero in sé.
Cregger si conferma autore pienamente consapevole. Fa il suo film, senza compromessi. Il risultato è un’opera che non si lascia incasellare, che a volte pare perfino disordinata, ma che restituisce con forza l’idea di un cinema capace di disturbare senza mostrare tutto, di inquietare senza spiegare troppo. Weapons è una fiaba nera americana che rifiuta il lieto fine, e per questo è tanto più potente.